Immortal – “Sons Of Northern Darkness” (2002)

Artist: Immortal
Title: Sons Of Northern Darkness
Label: Nuclear Blast Records
Year: 2002
Genre: Black Metal
Country: Norvegia

Tracklist:
1. “One By One”
2. “Sons Of Northern Darkness”
3. “Tyrants”
4. “Demonium”
5. “Within The Dark Mind”
6. “In My Kingdom Cold”
7. “Antarctica”
8. “Beyond The North Waves”

All’alba del Terzo Millennio, mentre il genere ormai a lei divenuto quasi sinonimo si è radicato in via definitiva pressoché ovunque in Europa e comincia perfino a riceve i primi frutti del suo spirito identitario sbocciati in altri continenti, la situazione del Black Metal nella madrepatria Norvegia continua a risultare parecchio ingarbugliata, restituendo da fuori l’idea di un’ambiente che da fucina di idee differenti legate dal medesimo sentore locale si è trasformato in poco più di un rumoroso e blasfemo pollaio dove, a prescindere dalla bontà di quanto viene inciso, ci si limita ad urlare sopra gli altri senza un minimo di coesione col resto del panorama. Nonostante il valore delle piccole sacche di resistenza ortodossa ma con giudizio impersonificata dai Taake e dai Kampfar dell’azzeccatissimo ritorno “Kvass”, le insicurezze figlie del delicato momento storico (interno quanto esterno alla corrente musicale) paiono infatti spingerne i grandi interpreti verso una sperimentazione quasi forzosa; senza dubbio sentita ma non abbastanza contestualizzata da evitare ad alcuni -anche ottimi- lavori la nomea di capitoli estemporanei come avvenuto ai vari Plaguewielder” e “Monumension” nel 2001.
Contagiati appieno da questa nevrosi artistica su vasta scala, gli Immortal attraversano perciò un lustro di rocamboleschi retrofront inaugurato dall’interlocutorio Blizzard Beasts” e portato avanti invece dal centro perfetto At The Heart Of Winter”, al quale nemmeno dodici mesi dopo segue quel “Damned In Black” che a sorpresa tenta e riesce nel nobilitare finalmente l’altamente incompreso opus del 1997, custodendo d’altra parte solo la superficie dell’acclamato predecessore in un’altalena di perfezioni che si spostano dal crudo Thrash/Death alle epiche pennellate Heavy e viceversa in maniera quasi maniacale, e che il rilascio vent’anni fa or sono del diretto successore intitolato “Sons Of Northern Darkness” non si permette certo di interrompere.

Il logo della band

Il cambio di casacca dalla a quel punto declinante Osmose all’impero del male Nuclear Blast paradossalmente non scuote affatto i già complicati equilibri creativi interni alla formazione di Bergen. Un po’ perché l’identità e la leadership di Abbath rimangono un faro luminescente sin dai tempi della vittoria personale datata 1999 (al punto che adesso è lui stesso a registrare il basso, nonostante la conferma di Iscariah quale membro fisso), e un po’ perché la formula intorno alla quale gravitano questi Immortal a cavallo tra i due secoli è davvero quella giusta: non tanto in vista di chissà quale riscontro di pubblico, bensì per via della convergenza tra la potenza di fuoco della major tedesca ed i punti di forza ormai sviluppatisi nel DNA del gruppo in seguito agli approdi di Horgh allo sgabello della batteria e di Peter Tägtgren a quello del mixer. Come del resto era accaduto con Fredrik Andersson subito dopo il suo reclutamento nei Marduk, il decano svedese alla consolle si concentra sul drum-kit di colui che di lì a qualche anno sarà il suo nuovo martello pneumatico negli Hypocrisy, e da quello riparte finendo col donare alla band norrena la sua miglior produzione possibile, pulita quanto basta per allontanare gli spettri di un passato fin troppo ingombrante per chiunque e allo stesso tempo malleabile a sufficienza da permettere differenti approcci di scrittura tutti egualmente validi; tant’è che dopo la violenza tutta fisica di “Damned In Black” si opta al contrario per qualcosa di assai più arioso, che prosegua lungo la corrente navigata dalla conclusiva, premonitrice title-track e conduca ad un’opera capace dello stesso gravoso compito affidato all’anzidetta sorella maggiore: attualizzare un album non nella sua semplice resa sonora come era stato fatto nei confronti di Blizzard Beasts” un biennio prima, ma proponendone una versione meglio digeribile per le giovani platee intrigate dall’estremo per famiglie, concetto solo in apparenza eretico e tuttavia prima sdoganato -e poi innalzato ad arte- dagli altisonanti nomi di Dimmu Borgir e Children Of Bodom.

La band

In fondo lo stesso Abbath doveva avere ben chiaro che nessuno sforzo possibile avrebbe potuto replicare un masterpiece tanto spontaneo quanto necessario (a lui, ben prima che al genere) quale era stato At The Heart Of Winter”. Per conseguenza, il supposto snaturamento di quelle partiture megalitiche in componimenti più quadrati, oltre che per gli ottimi riscontri in tandem col colosso editoriale di Donzdorf, si dimostra in realtà il segreto per dare a “Sons Of Northern Darkness” un proprio senso esistenziale, privati forse del quale i successivi Immortal vivacchiano tra le buone seppur poco notate idee del diverso comeback “All Shall Fall” (più penalizzato forse dallo scioglimento de facto prima e dopo il suo rilascio che non da una bontà di scrittura invero presente) ed i sottotesti umani piuttosto che artistici alla base del pur piacevole “Northern Chaos Gods”.
Non ci si lasci ingannare dall’esuberante inizio di “One By One”, introduzione da doppio occhio strizzato all’indirizzo del capitolo precedente: un minuto tondo di frastuono e andiamo alla carica verso le schiere nemiche, incitati dai gallup esaltanti di Abbath e dall’Horgh scatenato su rullate e terzine di pedale elevate da un sound-design sopraffino, tangibile e live (casse roboanti, snare come se ne sentono troppo pochi) nonostante la sua algida secchezza tradisca qualche ritocco in studio elargito con oculata esperienza dal futuro sodale in cabina di regia. Sempre al batterista, nel 2002 chiaro motore primario del trio, spetta il battesimo del brano che dà titolo a “Sons Of Northern Darkness” e ne mette in scena la sublime teatralità saltando dalle strofe concitate -ma mai fuori controllo- a quello che, in aperta contraddizione agli stessi Immortal di ieri, è considerabile un refrain melodico fatto e finito messo al centro della composizione, laddove invece nel 1999 era la pura idea di riff a guidare la dinamica delle tracce; ora la forma-canzone domina il dipanarsi di una felicissima “Tyrants”, imperiosa marcia in quattro quarti dei giganti del Nord condotti da un Abbath ai suoi massimi storici dietro il microfono, col suo sempre inconfondibile ringhio stavolta ammansito dall’aristocratico disprezzo per i mortali prostrati ai suoi piedi.
Appena un quarto d’ora dall’inizio e la band ha già sotto mano i tre nuovi e cosiddetti instant classics della sua discografia, e tuttavia basta superare la muscolosa “Demonium” per abbandonare gli scenari di battaglia e trovarsi nelle ben più inospitali lande congelate di Blashyrkh, ovviamente nel cuore più tetro dell’inverno. Benché l’allungarsi dei minutaggi lasci forse ulteriore spazio all’innescarsi d’innecessari paragoni, la seconda metà del platter viaggia lontanissima dal sofisticato songwriting del quinto capolavoro del gruppo muovendosi invece su percorsi lineari ma rallentati dalla potenza di vento e neve, dove le accelerazioni non sono che vacui miraggi dovuti all’imminente ipotermia. Forse la meno riuscita del lotto (ed è davvero tutto dire), “In My Kingdom Cold” azzarda un comunque lodevole cenno alle prodezze occorse tre anni addietro, eppure le lovecraftiane montagne della follia citate nel testo emergeranno all’orizzonte soltanto durante l’incipit ed il finale della circolare “Antarctica”, di per sé un episodio impeccabile e ciononostante oscurata dalla magistrale conclusione di quella che, per sette lunghi inverni, è stata l’intera carriera dei norvegesi. Con vento in poppa e gli imprescindibili Bathory fissi tra le stelle da seguire, il drakkar salpa infine sulle note della monumentale “Beyond The North Waves” alla volta dei confini del mondo, senza sprecare il solenne commiato in evoluzioni strumentistiche o altri ammennicoli e seguendo la semplice rotta di chi non deve affatto dimostrare un talento, o una creatività palesi a chiunque abbia occhi per vedere ed orecchie per sentire: la chitarra offre un ultimo volo su quei paesaggi diabolici e al contempo così puri, mentre i colpi sulle pelli ormai consunte sgretolano gli iceberg di un mondo di qui in avanti preclusoci, in quanto divenuto privo di altrettanto degni cantori.

Abbiamo visto Abbath combinarne di ogni muovendosi sulla sottile linea che separa la buffonata voluta dal dramma privato. Abbiamo visto Demonaz e Horh riuscire a bisticciare per soldi anche dopo essersi liberati di colui che con esagerata tristezza entrambi indicavano come la zavorra economico-compositiva degli Immortal, e soprattutto abbiamo visto un’entità leggendaria venire deflagrata dal tritacarne di internet a colpi di meme, revisionismi e decontestualizzazioni nei confronti di una poetica presa e rivoltata contro i suoi stessi creatori dalle raglianti masse affette dalla piaga post-ironica contemporanea. Capace di ridere per la centesima volta alla solita battuta per poi concedere addirittura la bellezza di tre minuti al videoclip di “One By One” in modo da avere la coscienza pulita, proprio il medesimo pubblico casual e bue avrebbe in ogni caso decretato il successo su ogni fronte di un “Sons Of Northern Darkness” al cui richiamo era impossibile resistere, evidente e magnetico alla stregua di uno spruzzo di sangue sulla candida neve. E un simile, ennesimo trionfo da parte del chiacchierato mastermind alle sei corde nei confronti di quelli che ad oggi sono considerabili detrattori del suo operato è, per certi versi, il motivo dell’astio provato da molti fan per i due full-length venuti in seguito; a confronto ricapitolazioni prive di sostanza e prontamente bersagliate da chi per qualche motivo trova il concetto di grim and frostbitten un sacco divertente.
Non sono del resto i soli Immortal a pagare caro il prezzo di un’utenza in ambito Black Metal cresciuta tanto da essere sfuggita di mano, come non sono certo loro gli unici ad aver prolungato il proprio catalogo mediante uscite evitabili; ma mentre le nubi di Blashyrkh si anneriscono mano a mano ogni giorno che passa sul futuro delle sue incarnazioni umane, l’unico modo per resistere al freddo assassino continua ad essere il ricordo del vostro disco preferito di questa icona – specie se di recente ha compiuto vent’anni.

Michele “Ordog” Finelli

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